
LE DIMISSIONI: BISOGNO PERSONALE DI CAMBIAMENTO O EFFETTO DI UN MERCATO LAVORATIVO FLUIDO?
Sulle orme della Great Resignation statunitense, verificatasi in procinto della pandemia, il fenomeno delle grandi dimissioni è arrivato ad investire anche il mercato del lavoro italiano.
Gli articoli e le riflessioni concernenti questa ondata di dimissioni sono proliferati, espandendo la diffusione delle possibili cause che hanno comportato l’impennata delle cessazioni volontarie del rapporto lavorativo e mettendo in guardia le organizzazioni da potenziali perdite di personale, spronandole a riabilitare quei punti deboli comuni in ambito aziendale e a colmare lacune imperdonabili nel periodo storico attuale (Lo Smart Working (direction.it)).
In questa profusione di articoli, si è cercato di ricondurre a quadro sistematizzato i potenziali motivi psicologici, e quindi le eventuali prese di coscienza avvenute durante (e grazie) al lockdown colpevoli di aver indotto i dipendenti a rassegnare le dimissioni: tuttavia, essi non tengono conto di quanto invece notato da Joelle Gallesi, managing director di Hunters Group, società di ricerca e selezione di personale qualificato, sulla base di un sondaggio condotto dallo stesso gruppo su un campione di 1000 candidati (1).
“Molti di coloro che hanno cambiato lavoro, già nei primi tre o sei mesi dall’inizio della nuova avventura professionale, rivalutano la scelta e sarebbero già pronti a cambiare nuovamente perché si rendono conti di aver preso questa decisione sull’onda dell’emotività invece che sulla base di un vero progetto di carriera”. (2)
Infatti, se non è da trascurare il dato secondo cui il 29% dei candidati tornerebbe a lavorare per l’azienda lasciata (3), è però a nostro avviso interessante la presenza di una percentuale di persone pronta a dichiararsi non soddisfatta del cambiamento ma comunque non disposta a retrocedere con la scelta, ma piuttosto a valutare ulteriori opportunità.
Come constatato da Hunters Group, sembra che molte decisioni di cambiamento siano state dettate non tanto da un confronto tra due realtà in cui si è vista prevalere la nuova proposta con le sue promesse e proiezioni, sulla condizione lavorativa di partenza, quanto piuttosto la semplice e viscerale “ricerca del nuovo” (4).
In un mercato lavorativo strutturalmente differente rispetto a quello novecentesco, dove l’acceleramento e il dinamismo assurgono a presupposto utile a comprendere le ragioni dietro al fenomeno delle dimissioni di massa, le persone non temono più i cambi di rotta e non sentono più di commettere manchevolezze nei confronti del datore di lavoro con cui si sia eventualmente instaurato un rapporto di fiducia (e di fedeltà) reciproche. Il mercato del lavoro rigido lascia il posto alla fluidità e le organizzazioni pagano sulla loro pelle la mancanza di adeguamento ad un fenomeno globale: la programmazione dei flussi del personale per medio-lunghi periodi diventa pratica obsoleta e l’azienda che la propone risulta poco attrattiva, di riflesso, ai candidati più potenzialmente inclini al cambiamento. (5)
L’adozione di un modello orientato all’assunzione e alla retribuzione esatta delle unità di forza-lavoro utili nell’immediatezza, e quindi impiegate entro margini giornalieri o orari, ovvero la pratica del just in time, diventa l’opzione migliore anche per le aziende nella loro relazione con la domanda proveniente del mercato, perché garantisce una produzione esatta sia in termini di tempo che in quelli di quantità. (6)
L’esigenza del cambiamento, in un mercato come quello contemporaneo, permette quindi di adattarsi perfettamente alla concezione del lavoro flessibile, cosiddetto “atipico” – e in particolare, alla “flessibilità in entrata”, proponendosi come modello definitivamente progressista solo se praticato in maniera strutturale, e quindi solo se capace di tradursi in un’opportunità sostenibile per i lavoratori (7). La premessa è tanto scontata quanto doverosa da ripetersi: infatti, questo sistema fruttifica solo nella condizione in cui i lavoratori abbiano continuamente la possibilità e l’opportunità di vendere la propria (e sempre più affinata ed evoluta) forza-lavoro in cambio di prospettive migliorative, altrimenti essi rimarrebbero bloccati in un circolo vizioso di precarietà, più che di flessibilità.
Guardando ai dati di aprile-giugno 2021, già emergeva il desiderio di cambiamento da parte dei lavoratori, tanto che quasi la metà delle dimissioni rassegnate sarebbero state motivate dalla volontà di “provare qualcosa di nuovo”, secondo l’indagine di Randstad Workmonitor. (8)
Anche lo studio di Aidp (Associazione per la Direzione del Personale), condotto su circa 600 aziende pone l’accento su questa ambizione al cambiamento, soprattutto da parte dei lavoratori più giovani: è emerso che un quarto del campione giovanile scommette su un nuovo senso di vita, come specificato da Marandola, presidentessa nazionale dell’associazione. E, tuttavia, anche i direttori del personale sembrano aver preso coscienza di queste esigenze: se per il 57% degli intervistati il fenomeno è dovuto alla percezione, da parte dei dipendenti, del senso del lavoro, un buon 30% degli HR ammette che la causa è da ricercarsi intrinsecamente al mercato del lavoro stesso, e quindi nel suo dinamismo interno. (9)
Ciononostante, solo il 12% delle aziende analizzate si è rivelata propensa ad abbracciare il fenomeno, anziché a cercare di contenerlo (invano), attivando piani di incentivazione all’uscita anche attraverso prepensionamenti; mentre la maggior parte delle organizzazioni preferisce non correre il rischio di ulteriori dimissioni evitabili. (10)
Matilde Marandola insiste, per di più, sul ritenere che i giovani siano i lavoratori più interessati dal (e al) fenomeno (11), in accordo a quanto notato da multinazionali come Adobe, che confessa che il 56% dei lavoratori aventi un’età compresa tra 18 e 24 anni avrebbe intenzione di cambiare occupazione entro un anno, e Microsoft, il quale clima non è dissimile da quello del competitor. (12)
A questo punto, gettando un occhio al futuro, potremmo chiederci se avrebbe senso rifiutare la possibilità di messa in atto di una vera e propria politica di esodo (e di rimpatri, perché no?) da parte delle aziende. Adeguarsi ad un fenomeno globale in crescita può permettere di cavalcare l’onda presente, ma le organizzazioni italiane non sembrano pronte a correre il rischio di evolversi, a causa del timore che il Big Quit altro non sia che un capriccio giovanile.
A che pro, quindi, investire sulla employee retention di cui tanto si parla, se l’esito è comunque una lettera di dimissioni motivata dalla banale volontà di cambiamento? Il disinvestimento sui dipendenti è una pratica sconsigliata, soprattutto quando a percepirlo sono i lavoratori stessi che, come analizzato dai moltissimi studi e articoli dedicati, sono spronati a muoversi altrove soprattutto in funzione di prospettive maggiormente attrattive (economiche, di carriera, di work-life balance ecc.). Entrare in un’ottica più fluida significa ristrutturare un’organizzazione con l’idea che possa fungere da crocevia di talenti, senza l’ambizione che essa sia l’ultima meta dei propri dipendenti ma, al contrario, con l’augurio che possa rappresentare, per i suoi lavoratori, una sosta soddisfacente, attraverso alti e costanti indici di attrattività.
Scritto da: Rossella Nicolini
Note:
(1) Hunters Group (2022). Grandi dimissioni: dopo meno di un anno il 30% tornerebbe indietro. https://www.huntersgroup.com/blog/grandi-dimissioni-dopo-meno-di-un-anno-il-30-tornerebbe-indietro/ consultato il 15 marzo 2023.
(2) idem
(3) idem
(4) idem
(5) Malizia, M. (2012). Il contratto a tempo determinato nel lavoro privato e pubblico. Assetti e linee di tendenza in un mercato del lavoro dinamico e globale [Tesi di Dottorato in Diritto del Lavoro]. Bologna: Università degli Studi di Bologna, 2012.
(6) eadem
(7) eadem
(8) Redazione Millionaire (2022). Dalle relazioni con i colleghi alla voglia di cambiare: i 10 motivi delle “grandi dimissioni”. https://www.millionaire.it/10-motivi-delle-grandi-dimissioni/ consultato il 15 marzo 2023.
(9) de Ceglia, V. (2022). Boom di dimissioni volontarie. Gli esperti: “Riguarda i giovani e gli impiegati del Nord Italia”. https://www.repubblica.it/economia/rapporti/osserva-italia/trend/2022/01/19/news/boom_di_dimissioni_volontarie_gli_esperti_riguarda_i_giovani_e_gli_impiegati_del_nord_italia_-334453828/ consultato il 15 marzo 2023.
(10) idem
(11) idem
(12) Gallo, G. (2022). Addio capo, me ne vado: perché le dimissioni volontarie sono diventate uno stile di vita. https://www.cosmopolitan.com/it/lifecoach/lavoro-carriera/a39071017/dimissioni-volontarie-pandemia-stime-cause-opportunita/ consultato il 15 marzo 2023.